Sono trascorse appena due settimane dal breve e intenso passaggio di Juan Bernabeu a Jesi. La sua presenza e il suo lavoro hanno lasciato un ricordo forte in tutti noi, così abbiamo chiesto a Carla di raccontarci il suo.
Buona lettura!
Il mio primo incontro con Platero è stato circa tre anni fa, quando è uscita l’edizione di Else con le illustrazioni di Juan Bernabeu. La mia curiosità era già stata accesa da Francesco, così quando ho avuto in mano questo oggetto non ho saputo resistere. L’ho letto subito.
Quando tre settimane fa Francesco mi ha detto che Juan Bernabeu sarebbe venuto per un laboratorio al museo della stampa sono entrata in una dimensione di incredulità da cui forse devo ancora uscire. È successo davvero? Si, è successo. Non solo. Ho avuto anche la possibilità di intervistarlo in libreria.
Prima ancora che mi rendessi conto dell’ansia che mi sarebbe sicuramente venuta, sono tornata a casa, ho ripreso in mano il mio Platero e l’ho aperto con l’idea di rileggerlo per poi preparare qualche domanda. In realtà mi è bastato sentire di nuovo il calore del cartone della copertina aperta e leggere qualche frase, che le domande sono scivolate dalle mani al blocchetto come se fossero state chiuse lì, dentro al mio Platero, per anni.
Sono due volte che scrivo “il mio Platero” non perché credo che Platero sia mio, ma perché questo libro, l’ha spiegato bene Juan durante l’intervista, è stato realizzato come se fosse un Platero di cartone, quindi un piccolo compagno a cui rivolgersi quotidianamente come fa il poeta con il suo asino, Platero, quello vero.
Il primo incontro di Juan con Platero è stato da bambino invece, come sospettavo dal momento che in Spagna è considerato un classico della letteratura per l’infanzia, ma meno significativo di come immaginavo. A quanto pare a Juan bambino è passato velocemente davanti solo il lato allegro di questo asino immerso in un paesaggio bucolico, ameno e luminoso. Ma, come avverte Jiménez all’inizio del suo libro, Platero di orecchie ne ha due, gemelle come l’allegria e la tristezza. Solo da adulto Juan ha visto anche il lato oscuro, apprezzando finalmente la completezza di quest’opera, dove il bene e il male coesistono, come la luce e l’ombra. Lui stesso ha ammesso di aver realizzato illustrazioni molto scure probabilmente proprio per contrastare l’immaginario così diffuso e distorto che ha sempre visto intorno a Platero.
Nessun colore mette in risalto il bianco quanto il nero e Juan, come il poeta con le parole, ha creato immagini senza pensare a nessun destinatario, consapevoli entrambi che i bambini e gli adulti attenti come loro sono perfettamente in grado di coglierne l’onestà.
Juan Bernabeu è entrato così in sintonia con Juan Ramón Jiménez da rappresentare il poeta con le proprie sembianze nell’illustrazione lunga intera nascosta all’interno del primo blocco da aprire. Di lui condivide il modo di vedere la vita con uno sguardo critico verso la società e di amare gli animali senza umanizzarli. La prima immagine che ha realizzato, quella a cui si sente più legato e che apre il libro, ci presenta Platero con gli occhi del poeta. Amorevoli, come gli occhi dell’asino mentre guarda la violetta che probabilmente sta per mangiare.
Ogni blocco di immagini, inserito ogni sedici brani, è un ulteriore brano, che rallenta regolarmente il ritmo altalenante fino ad uscire dal formato del libro per poi rientrarci delicatamente. I suoni e le immagini in movimento così ben evocate dalle parole hanno portato Juan a decidere di non concentrarsi su alcuni elementi ricorrenti, come la luna e i passeri, ma di ascoltare suggestioni personali, tra cui quelle nate dall’incontro casuale con le fotografie di Mario Giacomelli, come il carretto abbandonato nei campi per descrivere la libertà di Platero dallo sfruttamento o il ballo goffo delle persone che vestono i loro ruoli con gli occhi chiusi.
Che belli gli incontri casuali, che svegliano qualcosa che dorme dentro di te e che improvvisamente non puoi più ignorare. Deve essere stato così anche per Juan quando, proprio per Platero, ha sperimentato questa tecnica molto simile all’incisione, ma dove si ragiona al contrario. Non si disegna con il nero, ma con la luce del bianco che viene letteralmente fatta emergere graffiando via il nero che avvolge tutto lo spazio. Una tecnica manuale, lunga, paziente, delicata, che è solo il preludio della composizione dei brani illustrati e del processo di stampa serigrafica finale. Questo preludio Juan lo ha condiviso con noi partecipanti al laboratorio al Museo delle Arti della Stampa in due giornate di quelle in cui il tempo scorre in maniera diversa. Ci siamo concentrati tutti sul suo brano preferito, I passeri, per graffiare via il nero che copriva i nostri ricordi, le nostre paure, i nostri desideri, il nostro bisogno di ascoltarci.
È proprio quando ci si prende del tempo per farlo che si possono accettare sfide, come ha fatto Juan per illustrare Platero y yo o Else per proporglielo, immaginando in ogni materiale e dettaglio un oggetto umile e prezioso come un asino.
Rispetto la volontà di Juan di non svelare la parte finale del libro, ma quando me ne sono andata dal museo della stampa non ho potuto fare a meno di guardare la farfalla sopra l’elefante nel suo logo.
Carla Marinelli